Esterovestizione, diritto e giurisprudenza
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Cosa è l’esterovestizione o, tecnicamente, abuso della libertà di stabilimento delle società (c.d. “esterovestizione societaria”)?
La giurisprudenza chiarisce che per “esterovestizione di persona giuridica” deve intendersi: «la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare, in un paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale».
Precisa, quindi, che siffatti fenomeni si realizzano «attraverso la costituzione, solo fittizia, di una società all’estero che poi, di fatto, subentra nel business della società residente negli Stati a fiscalità piena».
In questo senso, «risulta esterovestita una società costituita all’estero che presenti uno o più criteri legali di collegamento con l’ordinamento nazionale».
L’esterovestizione è definibile come «fittizia localizzazione all’estero di una società (o ente commerciale), al fine di beneficiare di un’imposizione più favorevole, sebbene la società stessa sia sostanzialmente situata nel territorio dello Stato (italiano)». Cass. Sez. Trib., 7 Febbraio 2013, n. 2869.
Di questo avviso anche la dottrina, per la quale: «L’esterovestizione societaria può essere definita, come un’operazione attraverso la quale una società riesce formalmente ad allocare in un altro paese la residenza fiscale, pur conducendo nel territorio italiano la propria attività principale, ovvero abbia localizzato in Italia la sede della propria amministrazione».
Norme: art. 73, comma 5-bis, del DPR n. 917/86: «Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato».
Art. 2359 co.1, c.c.: «Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Ai fin dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa».
Ai sensi dell’art. 73, comma 3, del TUIR, «si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato».
Tieni presente questi 3 dati:
- SEDE LEGALE
- SEDE AMMINISTRATIVA
- OGGETTO PRINCIPALE DEI PROPRI AFFARI
Per “stabile organizzazione” si designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato».
Studiamoli nel famoso caso di DOLCE E GABBANA:
I due atti da cui era partita l’indagine penale condotta dai pm milanesi Laura Pedio e Gaetano Ruta, in relazione alla cessione dei marchi “Dolce & Gabbana” e “D&G” alla Gado, una società lussemburghese sempre del gruppo Dolce & Gabbana infine dichiarata “esterovestita”.
Nel marzo del 2004 il gruppo Dolce & Gabbana decise di costituire due società in Lussemburgo – la Dolce & Gabbana Luxembourg e la Gado, sua controllata – per poi cedere a quest’ultima i più importanti marchi di cui si fregiano le loro creazioni per 360 milioni di euro. In sostanza veniva demandata a Gado la gestione e tutela dei marchi, fino a quel momento svolta in Italia, a fronte del pagamento di royalties dai licenziatari, le società del gruppo in primis. In Italia sulle royalties pagavano il 45 per cento di Irpef, essendo di proprietà di persone fisiche: una volta nel Granducato l’incidenza fiscale sarebbe crollata al 4 per cento, grazie a un accordo con l’erario locale.
L’operazione era stata contestata dalla Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle Entrate.
Nel maggio 2009, Dolce&Gabbana sono stati accusati di evasione fiscale ai danni dello Stato di circa 249 milioni di euro imponibili, deviati invece in Lussemburgo, in un arco di tempo dal 2004 al 2006. La successiva multa ammonterebbe a circa 800 milioni di euro.
Nel marzo del 2013 la sentenza di appello condanna Dolce e Gabbana al pagamento di 343 milioni di euro a testa per evasione fiscale.
Il 19 giugno del 2013 sono stati condannati a un anno e otto mesi di carcere per evasione fiscale e al pagamento di una multa previsionale di 500.000 euro.
Il 24 ottobre 2014 invece sono stati prosciolti in cassazione “per non aver commesso il fatto” .
Con la sentenza n. 43809/2015, la Corte di Cassazione penale, pronunciandosi definitivamente sulla nota vicenda Dolce & Gabbana, ha assolto i due stilisti milanesi dall’accusa di omessa dichiarazione di cui all’art.5, D.Lgs. n.74/00 con formula piena perché il fatto non sussiste.
Si segnalano due recenti sentenze della Cassazione Civile, Sez. V, 21 dicembre 2018 nn. 33234 e 33235.
Tali sentenze sono interessanti perché, rifacendosi al noto caso “Dolce & Gabbana”, affermano la legittimità della localizzazione della residenza fiscale all’estero purché qui la società svolga una qualche attività: «Dietro a quel ripetuto richiamo alla mancanza di autonomia gestionale e finanziaria si cela l’ispirazione di fondo dell’intera decisione: la predisposizione degli aspetti gestionali e organizzativi dell’attività di Gado s.a.r.l interamente in Italia, lasciando alla sede lussemburghese i soli compiti esecutivi. Con il che, però, si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva».
Pertanto, ai fini del giudizio sulla sussistenza di un fenomeno di esterovestizione societaria, non è sufficiente accertare che il luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative della società estera (sede della “direzione effettiva”) sia in Italia: è altresì necessario accertare se tale società svolga un’effettiva attività economica all’estero o se, viceversa, essa si configuri come una “società-schermo”, un puro artificio privo di qualsivoglia sostanza economica (sul punto, v. Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2018, n. 50151).
Così, nel giudizio di accertamento, il giudice deve valutare non solo il luogo della sede della “direzione effettiva” (criterio della “sede effettiva”) ma anche, e soprattutto, l’eventuale sussistenza di valide ragioni organizzative, strutturali e funzionali che giustifichino la scelta imprenditoriale di localizzare la residenza fiscale all’estero e qui svolgere l’attività (criterio della “effettiva operosità”).
Ed anzi, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, in tempi recenti, della stessa Corte di Cassazione italiana, il criterio della “sede effettiva” appare sempre più recessivo rispetto al criterio della “effettiva operosità”.
Difatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisato che: «a un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica una maggiore imposta» poiché il soggetto passivo «ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale» (C.G.U.E., Grande Sezione, Sentenza “Halifax” del 21/02/2006 n. C-255/02).
Pertanto, «il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente “indebito” il vantaggio fiscale» (Cass. pen., sez. III, sentenza n. 43809 del 24/10/2014, sul noto caso “Dolce & Gabbana”, durato ben sette anni, contraddistinti da tre giudizi ed un duplice passaggio in Cassazione).
Art. 5. Omessa dichiarazione (DECRETO LEGISLATIVO 10 marzo 2000, n. 74)
1. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.
1-bis. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila.
2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.
Ai sensi dell’articolo 73, comma 3, Tuir una società di capitali è considerata fiscalmente residente in Italia quando per la maggior parte del periodo d’imposta ha mantenuto la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
Tali criteri di radicamento con il territorio dello Stato sono fra loro alternativi e, quindi, basta il realizzarsi di uno solo di essi affinché la società o l’ente vengano sottoposti a tassazione in Italia, in base del noto principio della tassazione su base mondiale (c.d. worldwide principle).
Con lo scopo di rafforzare la lotta all’evasione in ambito internazionale, il D.L. 223/2006 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico un meccanismo che, in virtù di una presunzione legale relativa, pone l’onere della prova in capo al soggetto estero che viene considerato presuntivamente esterovestito.
In particolare, ai sensi dell’articolo 73, comma 5-bis, Tuir viene stabilito che, “salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di
società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
FATTO: Il Presidente del Consiglio di Amministrazione e due amministratori (di fatto) di una società venivano tratti a giudizio perché accusati dei reati previsti e puniti dagli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000. Più precisamente, veniva loro contestato, nelle rispettive qualità: a) di aver infedelmente dichiarato imposte attive per un ammontare inferiore a quello effettivo, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per gli anni fiscali dal 2007 al 2010; b) di aver omesso di presentare la dichiarazione relativa all’anno fiscale 2009 al fine di evadere l’imposta sui redditi.
Tali violazioni sarebbero state attuate mediante la costituzione e la fittizia localizzazione della residenza fiscale della società all’estero, in Portogallo, all’unico scopo di sottrarsi al più gravoso trattamento fiscale italiano.
Ebbene, risulta dagli atti di causa come la società portoghese di fatto operi in Portogallo, qui convocando assemblee e Consiglio di Amministrazione, qui reclutando e formando il personale. Inoltre, la scelta di costituire la società a Madeira, in Portogallo, pare giustificata dai conseguenti vantaggi non solo fiscali ma anche operativi, quali: la vicinanza all’area di maggior attività sociale (coste dell’Africa Nord-Occidentale); l’esistenza nell’isola di un valido registro navale e di un porto di eccellenza; le tutele derivanti dall’essere il Portogallo uno Stato membro dell’Unione Europea.
Secondo il principio comunitario della libertà di stabilimento l’imprenditore può esercitare la propria attività economica nel paese che più ritiene confacente alle proprie esigenze; egli ha, ovverosia, il diritto, riconosciuto dalla normativa internazionale, di sfruttare tutte le opportunità di mercato che gli si presentano, compresa quella di trarre benefici fiscali da una legislazione che li preveda.
«Si trata, come accennato, di diritto di rango comunitario, sancito dall’art. 54 del TFUE, secondo il quale le persone giuridiche che operano legalmente in uno Stato membro possono creare e gestire un’attività permanente su base stabile e continuativa, alle medesime condizioni che la legislazione dello Stato membro di stabilimento definisce per i propri cittadini». Ciascun soggetto economico operante nel sistema comunitario ha, quindi, il diritto di trarre vantaggi fiscali derivanti dalla propria localizzazione, scegliendo liberamente dove stabilire la propria attività. A tal proposito la stessa Corte afferma che: «il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio». Cass. Pen., 30 ottobre 2015, n. 43809
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